Indebito utilizzo carte di credito art 55

Il reato di utilizzo illecito di carta di credito si consuma nel momento in cui si fa uso di una carta di credito o di pagamento di cui non si risulti legittimo proprietario.

Compie il suddetto reato chiunque usufruisca di numeri e codici personali, ottenuti illecitamente, per scopi personali o a beneficio di terzi.

Bisogna sottolineare che non occorre che si disponga della carta di credito materiale.

Sebbene le conseguenze legali associate al reato possano impropriamente essere connesse all’articolo 640 del Codice Penale (reato di truffa), sono invece collegate all’articolo 55 comma nono del Decreto Legislativo del 21 novembre 2007, n 231. Quest’ultimo costituisce la legge istituita per punire le attività di riciclaggio e/o finanziamento del terrorismo.

La differenza è stata evidenziata da un processo penale, presso il Tribunale di Vallo della Lucania, nei confronti dei signori V.G. e V.A. che avevano illegalmente utilizzato i codici di una carta di credito della quale non risultavano essere proprietari. Nel 2007 il Tribunale li aveva condannati per il reato punito dall’art. 55, comma 9, del Decreto legislativo del 21 novembre 2007, n. 231.

L’articolo 55 prevede che: “Chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro.

Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.”

I signori V.G e V.A proposero appello contro la sentenza del Tribunale di Vallo della Lucania che li aveva condannati, alla Corte di Appello. La Corte di Appello di Potenza però condivise la sentenza e decise di confermarla. Gli interessati, condannati anche dalla Corte di Appello, decisero di opporsi alla seconda sentenza proponendo ricorso a un giudice della Corte di Cassazione.

Il motivo dell’opposizione stava dunque nel fatto che, a parer loro sia il Tribunale che La corte di Appello, avevano emesso un giudizio errato nel condannarli per il reato previsto e punito dall’art. 55, comma 9, del Decreto legislativo del 21 novembre 2007, n. 231, ma avrebbero dovuto essere condannati per il reato di “reato di truffa informatica” previsto dall’art 640 ter del codice penale.

Il reato di truffa informatica prevede, infatti, come pena la “reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032.”, pena decisamente inferiore a quella prevista dall’art. 55, comma 9, del Decreto legislativo del 21 novembre 2007, n. 231, che prevede “reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro”.

Risulta evidente che l’intenzione fosse proprio quella di ottenere una pena inferiore, contestando molteplici volte le sentenze precedenti nella speranza di avere una riduzione delle conseguenze legali connesse al reato.

Il tentativo di ottenimento di una pena inferiore non ebbe un risultato positivo poiché anche la Suprema Corte di Cassazione per l’ennesima volta condannò i signori V.G. e V.A, distinguendo una volta per tutte la differenza tra il reato di “reato di truffa informatica” previsto dall’art 640 ter del codice penale e il reato previsto punito dall’art. 55, comma 9, del Decreto legislativo del 21 novembre 2007, n. 231. Evidenziò, dunque, il motivo per cui la prima fattispecie criminosa più lieve non poteva essere applicata, ma gli imputati sarebbero giustamente stati condannati per il secondo tipo di reato, più grave e con pene più severe. Qualsiasi dissenso fu irrevocabilmente rifiutato sulla base del severo giudizio disposto della Corte di Cassazione.

Appare adesso evidente come per consumare il suddetto reato non sia necessario possedere materialmente la carta di credito o di pagamento, al contrario basta disporre dei codici della carta e dei codici personali utilizzandoli per beneficio proprio o altrui.

La frode informatica, invece, ex art. 640 ter codice penale fa riferimento a colui che “alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.

Nel caso preso in esame i signori V.G e V.A avendo fatto uso di codici personali ottenuti in modo illecito per effettuare pagamenti su un sito online senza accedere ad un sistema informatico privato, risultano responsabili del delitto loro imputato. Non avendo violato nessun sistema informatico illecitamente, il reato commesso non entra a far parte della categoria punita dell’articolo 640 ter codice penale ma si inserisce in un contesto più ampio che è quello collegato all’articolo 55.

Tenendo presente che non si tratta affatto di questioni legali di evidente semplicità è necessario porre attenzione alle differenze sottoscritte dai due articoli. Non risulta elementare dare una definizione concreta ma prendendo in esame un fatto realmente accaduto ci si può avvicinare a comprendere le grandi manovre legali che si celino dietro uno o più reati.

Per quanto dunque non si possa avere un responso definitivo e corretto queste sono in breve le conseguenze legali imputabili al suddetto reato.

Prendendo in considerazione l’analisi svolta, i signori V.G e V.A vennero definitivamente condannati.

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